Persico, il bambino Tossico

Dalla nota alla traduzione di Nico Orengo, autore della versione italiana:

«Ragazze solforose, bambini ostrica e bambine con molti occhi: come sono inquietanti i piccoli personaggi di Tim Burton, innervati di nevrosi e malattie metropolitane. Non cresceranno mai e mai rimarranno come Peter Pan perché l’arco della loro vita è breve e accidentato.

Sono figure struggenti, disegnate con grafite e parole in neogotico, piccoli E.T. spaesati o fiabeschi che emanano ad ogni parola, ad ogni gesto un alone di meraviglioso, di incantesimo, subito frustrato dagli adulti, genitori, medici o “normali” che siano».

Persico, il bambino Tossico

Chi di noi lo conobbe

– i suoi amici –

lo chiamò Persico.

Ad altri fu noto

come l’orrendo

bambino Tossico.

Amava l’ammoniaca

e l’amianto e tanto

il fumo delle sigarette:

ne aspirava anche sette,

per lui era ossigeno

tutto ciò che per altri

era cancerogeno.

Il giocattolo che preferiva

era una bomboletta

che agitava da seduto

e spruzzava da qui a lì,

finché il giorno

non era scaduto.

Accoccolato in autorimessa,

nella brina mattutina

si attaccava contento

ad ogni tubo di scappamento.

L’unica volta

che pianse, il bambino Tossico

fu per una goccia di arsenico

scivolata nell’iride.

Ma ci fu anche un dì

che il suo corpo si irrigidì:

l’avevano messo in giardino

perché prendesse aria buona.

E l’ultimo respiro della sua breve vita

fu malsano e disperato.

Chi mai avrebbe pensato

che si poteva morire così:

di mattina per una boccata

d’aria fina?

Mentre l’anima di Persico,

il bambino Tossico, abbandonò

il suo corpo, gli amici

nella sera mormorarono una preghiera.

E l’anima come un fazzoletto

di velo vagò verso il cielo

e salendo e salendo

allargò, diobuono, il buco

dell’ozono.

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La linea d’ombra

Secondo Conrad arriva per noi il momento in cui sentiamo di attraversare un confine, la linea d’ombra, in cui in un solo attimo passiamo dalla giovinezza alla maturità. Accade qualcosa, in un preciso istante, che cambia la nostra percezione della vita e che fa in modo che ci assumiamo sulle nostre spalle il coraggio di esistere.

Ma che significa il coraggio di esistere?

La presa di coscienza della maturità significa farsi carico della responsabilità dello stare al mondo. Essere in grado di condurre la propria vita rinunciando ai sogni e alle illusioni della giovinezza senza avere, sull’altro piatto della bilancia, nulla in cambio. Accettare l’esistenza come piccolo e quotidiano atto di eroismo. Il premio che si ottiene  è la consapevolezza che ci dona la maturità, la piena assunzione di responsabilità del nostro destino. Guadagniamo la verità e il disincanto nei confronti della nostra esistenza, e ci lasciamo dietro una catena di gioie e speranze senza fine. Il nostro destino si chiude implacabilmente davanti a noi e la nostra realizzazione personale non può prescindere dal guardare le cose come realmente sono.

Lo stesso concetto, pressappoco, l’ho trovato nel Deserto dei Tartari, di Buzzati, dove un giovane ufficiale, Giovanni Drogo, rincorre per tutta la vita qualcosa che non succederà mai. Vive perennemente nell’illusione che il suo destino cambierà, che qualcosa succederà nella fortezza sperduta dove passa tutta la sua vita. In un solo momento, e oramai troppo tardi, si accorgerà di non aver attraversato la sua linea d’ombra.

«Disteso sul lettuccio, fuori dell’alone del lume a petrolio, mentre fantasticava sulla propria vita, Giovanni Drogo invece fu preso improvvisamente dal sonno. E intanto, proprio quella notte – oh, se l’avesse saputo, quella notte cominciava per lui l’irreparabile fuga del tempo.

Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.

Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l’impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada.

Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto.

Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell’orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire.

Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini».

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Il carrello dalla ruota svirgola

Capita. Non spesso per fortuna, ma capita.

Succede quando fai la spesona, il sabato mattina, oppure il venerdì sera se finisci di lavorare presto. Perché la spesa infrasettimanale si fa col cestino, ma quella del fine-settimana rigorosamente col carrello.

Eh sì, perché la soglia la conosciamo benissimo. Quando il cestino, da oggetto pratico e veloce si trasforma in un macigno di granito. È quello il limite oltre cui l’ingombrante e classico carrello diventa il nostro amico del fine-settimana. E il venerdì, o il sabato, la soglia si oltrepassa sempre.

Vorrai comprare due birre, o magari del vino. Per non parlare della carta igienica, che da sola riempe già un cestino intero. L’ammorbidente, oppure il detersivo per la lavatrice. Insomma, qualcosa che ti fa superare la soglia c’è sempre. E lo sappiamo tutti cosa vuol dire commettere il classico errore da inesperti: trascinare il cestello di granito per i tre chilometri di corsie è una sensazione che non vorremmo provare mai.

In alcuni supermercati hanno messo in azione un mezzo ibrido. Il carro-cestello. E voi direte: «come funziona?». È semplice. Il carro-cestello è come un cestello un po’ più grande, con le ruote di plastica e una specie di prolunga da estrarre per trascinare comodamente la spesa in giro per il negozio.

Non starò a dilungarmi tanto, perché il carro-cestello è già agli occhi di molti un fallimento. Innanzitutto estrarre la prolunga richiede un gesto ginnico che non tutti sono in grado di fare. Uno scomodo piegamento verso il pavimento che può mettere alla prova i soggetti più sedentari; e non solo quelli. Il carro-cestello, inoltre, è riuscito a scontentare sia i fan del carrello che i sostenitori del cestello. Un buco nell’acqua. E io ve lo posso dire per esperienza personale, perché nei posti dove è in vigore il carro-cestello, come al Decathlon, la gente, pur di non trascinarsi dietro questa mini-roulotte, arriva alle casse piena come un albero di Natale, con i calzini dentro le tasche dell’accappatoio in microfibra e i pile ammassati sull’avambraccio. Uno spettacolo a dir poco indecoroso e non degno di un posto elegante e raffinato come il Decathlon.

Ebbene, anche se noi decidiamo di utilizzare i mezzi più appropriati, può capitare (raramente per fortuna) di incappare nel carrello dalla ruota svirgola. Su un totale di quattro, infatti, basta che una sola ruota decida di farsi gli affari suoi, di non seguire le sue compagne di viaggio, perché la traiettoria del carrello diventi completamente imprevedibile. Crollano le tue certezze del fine-settimana, e da allegro consumatore il tuo compito si trasforma in domatore di carrello.

In realtà ci si accorge subito del problema di assetto, e sarebbe semplicissimo cambiare veicolo. Ma sfido chiunque a trovare una sola persona che sia mai tornata indietro per sostituire il carrello dalla ruota svirgola. Siamo tutti convinti che ce la faremo. D’altronde è anche vero che quando il mezzo è vuoto il problema è solo leggermente percepibile. Butta un po’ da un lato, è vero, ma basta riequilibrare le spinte per seguire un rotta perfettamente diritta.

Mano a mano che il carrello si riempie, però, la spinta riequilibratrice si fa via via più consistente. L’assetto del mezzo precario, e la linea retta definitivamente perduta. Nei casi più drammatici vi troverete a spingere esclusivamente da un lato, esercitando una pressione fortissima per fare strusciare la ruota svirgola sul pavimento.

Lei, dal canto suo, non girerà più. Mettetevi il cuore in pace.

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Rosa Vercesi, una storia di amore e morte

A Torino era una calda mattina di agosto, il 19 agosto del 1930. Erano le quattro e mezza; dalla finestra di un palazzo del quinto piano si sentono urla disumane, di voci femminili.

Poco dopo, alle sei, la giornalaia nota una strana donna che compra «La Stampa» e «La Gazzetta del Popolo», completamente avvolta in un impermeabile chiaro. Il bavero è rialzato e porta un cappellino di paglia calato sugli occhi.

Rosa Giorgelli, questo il nome della giornalaia, non dimenticherà mai quello sguardo.

E d’altronde come si può passare inosservati così imbacuccati in una calda mattina di piena estate?

La donna scompare dentro al palazzo dal quale, un’ora e mezza prima, erano uscite le grida furibonde. Ne uscirà di nuovo poco dopo.

Alle nove del mattino si presenta il ragazzo che lavora nel negozio di abbigliamento per bambini di proprietà di Vittoria Nicolotti, che, stranamente, non si era ancora presentata al lavoro.

Sale al quinto piano insieme alla portinaia. La porta è socchiusa, e la luce è ancora accesa (alle nove del mattino di una luminosa mattina di agosto). La portinaia non ha il coraggio di entrare e chiede aiuto a un’inquilina.

Chiamano tutte e due la Nicolotti, che non risponde. Entrano insieme nell’appartamento.

Vittoria Nicolotti è nel suo letto, apparentemente addormentata, protetta da una coperta di lana. Ma addormentata non è, perché è stata uccisa durante la notte, e sotto la coltre il suo corpo è ricoperto di ecchimosi e graffi. Esiste ancora la foto, riprodotta in un vecchio manuale di medicina legale: «Il braccio posa su una larga mammella, sull’avambraccio una bocca ha aperto con un morso un impressionante cratere. La testa è girata e il collo è cosparso di macchie livide».

Alle sei di pomeriggio viene subito fermata, a casa sua, Rosa Vercesi. L’ultima persona con cui era stata vista Vittoria Nicolotti la sera prima. Intorno alle nove di sera la portano in questura. «Ho freddo, voglio indossare la volpe!», dice Rosa prima  di partire. E così andrà in questura, «il collo cinto da quell’ignobile accessorio di moda con gli occhi vitrei, che dovrebbe nascondere le unghiate della vittima».

La «volpe» non servirà a molto, e in questura Rosa verrà fatta spogliare e fotografata nuda. È coperta di graffi, davanti e dietro, e un seno è maciullato.

Prima dice: «Pensa che cosa mi arriva: ero in vestaglia, sono ruzzolata per le scale, era piena di spilli perché me la stavo riparando». Eh sì, le scale sono sempre scivolose. Subito però rettifica: «Fu il mio amante, Arturo Pistamiglio, a procurarmi questi graffi, nello spasimo della congiunzione». Ma il Pistamiglio nega tutto (certo che, però, lo spasimo della congiunzione non è niente male).

Vengono subito a galla i retroscena. Rosa e Vittoria si conoscevano dal 1925. Vittoria guadagnava bene dalla sua attività e voleva investire in borsa, e Rosa era un’abile e scaltra donna d’affari. Tuttavia pare che qualcosa non andasse per il verso giusto e che Rosa dovesse rendere importanti somme di denaro a Vittoria. Il delitto viene da subito inquadrato come una storia di soldi e debiti. Ma non è stato solo questo.

Vittoria si lasciò inebriare dal profumo degli affari e ripose soldi e amore nelle mani di Rosa, che dal canto suo lasciava pur fare, non capendo se lo faceva soltanto per frodare l’amica oppure la frodava per starle vicino. Erano l’inganno e l’amore che univano queste due donne, a loro modo e in modo differente, ambiziose. Vittoria si era guadagnata a fatica una posizione di successo nel commercio, mentre Rosa era una specie di Wanna Marchi della finanza, anche se molto più ammaliatrice.

A un certo punto, però, l’incanto si rompe. Vittoria vuole indietro i suoi soldi e Rosa, dal canto suo, non riesce più a tollerare il morboso vincolo che si era creato tra le due donne.

Ma Rosa l’ha uccisa solo per i soldi? Se fosse stato solo questo il motivo, quella sera non sarebbe andata a dormire da Vittoria. E poi, anche nel caso avesse deciso di andare a casa sua e farla fuori, perché aspettare le quattro e mezza del mattino? Probabilmente aveva ragione Rosa quando parlava di «spasimo della congiunzione». Ma non a proposito del Pistamiglio.

Le dinamiche dell’omicidio, poi, sono anomale e inspiegabili. Rosa uccide Vittoria alle quattro e mezza, ma poi se ne sta un’ora e mezza a casa sua, con il cadavere dell’amica. Non solo, ma esce alle sei, e va dalla giornalaia di fronte vestita da Vittoria (e infatti la portinaia affermerà di aver visto Vittoria che si aggirava nei dintorni a quell’ora).

Rosa Vercesi, in poche parole, nega con fermezza di essere l’assassina, ma allo stesso tempo fa di tutto per essere inchiodata. Quando il 29 novembre andrà a colloquio con la madre, si farà scoprire con un bigliettino nel seno indirizzato ai genitori: «Appena vi sarà possibile avere le chiavi di casa mia, vi prego di far scomparire dalla plafoniera della mia camera da letto alcuni gioielli che vi ho nascosto e che aveva dimenticato la mia amica la sera che venne a casa mia […]».

A questo punto l’ergastolo è assicurato.

Rosa sconterà la sua pena nel carcere di Trani, lo stesso dove verrà condotta qualche anno più tardi Rina Fort, la belva di via San Gregorio. Dai racconti emerge una detenuta modello. Morì il diciannove gennaio 1981. Ricevette la grazia nel 1959, e in seguito andò a vivere a Giovinazzo. «Lentamente, la sua mente s’ingolfa nel buio, la lambiscono nere ondate. Nessuno sa che questa strana fu Rosa Vercesi, la chiamano la pez – la pazza».

La storia è stata ricostruita con precisione da Guido Ceronetti nel libro La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria. La storia è vera perché tutta basata sui dati oggettivi (a parte la consultazione della medium alla ricerca di quello che le cronache e i documenti non dicono). Nelle ultime due pagine, tuttavia, Ceronetti racconta di come abbia consultato il pendolo per capire cosa sia successo veramente quella notte. Il pendolo, tuttavia, conferma in pieno la sua versione dei fatti.

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Il cognac della cicogna, la talpa tanghéra, e l’arzilla libellula

Ancora tre poesie di Toti Scialoja. Le altre, insieme alla presentazione, le trovate a questo link

Gran bisogno ha la cicogna

di un cicchetto di cognac.

Sulla guglia, a notte, agogna

trangugiare del cognac.

Perché metterla alla gogna

Sol se sogna il suo cognac?

Vi racconto la vita di una arzilla libellula

che rimase allibita quando divenne vedova

da capo a piedi gelida smise di far ginnastica

avvolse la sua elica in un velo di plastica

decise un lungo viaggio destinazione Empoli

e per darsi coraggio s’installò sopra i trampoli

mentre marciava in fretta scandendo: «Oh lulla, oh libe!»

inciampò in una fetta di bavarese al ribes.

«Sorte molliccia» disse «una torta che trema!

Più piango più mi appiccico. Sto crepando di crema!»

Quando la talpa vuol ballare il tango

il salone si svuota, ed io rimango.

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Creso e l’indagine sulla felicità

Creso, re di Lidia, riuscì a costruirsi un vasto regno portando a termine la politica del padre. Come riferisce Erodoto «quasi tutti i popoli stanziati al di qua del fiume Alis erano stati assoggettati». Re di un impero in Asia minore, proverbiale per la sua ricchezza, Creso ostentava la sua opulenza a ogni occasione.

Proseguendo nel suo racconto, Erodoto ci narra come si recavano a Sardi, capitale del regno, tutti i sapienti. Tra questi ci fu anche Solone, che vi arrivò dopo aver dato le leggi agli ateniesi, e «quivi giunto, fu ospitalmente accolto dal re nella reggia».

«Due o tre giorni dopo il suo arrivo, per ordine di Creso stesso, i servi condussero Solone per le sale del tesoro e gli mostrarono che tutto era splendido e fastoso».

Creso lascia passare un po’ di tempo, fa in modo che il suo ospite possa osservare e toccare con mano la sua opulenza e soppesare le monete e i metalli prezioso del suo tesoro, e poi gli pone una domanda.

«Ospite di Atene, poiché è giunta fino a noi grande fama di te, della tua saggezza e dei tuoi viaggi, che, cioè, per amore del sapere tu hai con cura visitato gran parte della terra, ora mi è venuto il desiderio di domandarti se tu hai già visto un uomo, che sia il più felice del mondo».

Ovvio che per lui la risposta era scontata.

Ma Solone risponde che l’uomo più felice del mondo era un tale Tello di Atene, che ebbe dei figli belli e buoni, e morì costringendo i nemici in fuga alla battaglia di Eleusi, e per questo gli ateniesi lo seppellirono a spese pubbliche.

Creso è irritatissimo. E per secondo, gli chiede? Niente da fare, non è neanche al secondo posto.

Allora Creso perde il suo aplomb e sbotta: «Ospite di Atene la nostra felicità è da te considerata un nulla, che non ci stimi degni di rivaleggiare con dei semplici cittadini privati?».

Così risponde Solone: «Di tutti questi giorni che formano i 70 anni, e sono 26.250 [considerato da Solone come il limite della vita dell’uomo], non ce n’è uno che trasmetta all’altro una cosa completamente uguale.

«Così, dunque, o Creso, l’uomo è tutto in balia degli eventi.

«A me tu, ora, appari possessore di grandi ricchezze e re di molti popoli; ma quello che tu mi chiedi io non te lo posso ancora dire, prima di aver saputo che hai chiuso la tua vita nella prosperità. Poiché non è vero che colui che è molto ricco sia più felice di chi ha da vivere alla giornata, se non l’accompagna la fortuna di terminare la vita in una completa felicità».

«Di ogni cosa bisogna considerare la conclusione, come andrà a finire; poiché a molti già il dio lasciò intravedere la felicità e poi li precipitò nella più profonda rovina».

Il commento finale di Erodoto è questo: «Con queste parole non faceva, io credo, molto piacere a Creso il quale lo congedò, non avendolo ritenuto degno di alcuna considerazione; piuttosto stolto, anzi, gli era sembrato egli che, sdegnando i beni presenti, consigliava di badare alla fine di ogni cosa».

Ah, questi sapientoni di Atene, che vengono qui a casa mia a darmi lezioni!

Questa è la scena che vediamo nel quadro di Gerrit Van Honthorst, il pittore che gli italiani, quando era a Roma, chiamavano Gherardo delle Notti a causa dei suoi quadri a lume di candela.

Creso, splendidamente abbigliato, è sul trono; il suo tesoro sparso dappertutto: monete, argenti, oro. Schiavi si inginocchiano ad adorare le sue ricchezze. Creso ha appena fatto la sua domanda, e già si indica da solo come a dire: «Sono io il più felice, vero?». E Solone, vestito come un mendicante: «No, no, non sei tu, è quell’altro, Tello di Atene!». I cortigiani a fianco del re, con i loro splendidi cappelli piumati (la filologia non era proprio all’ordine del giorno, ai tempi), ridacchiano nel vedere questo soggetto improbabile, questo pezzente con una coperta addosso e i legacci ai pantaloni, dire tali stupidaggini al re di Lidia. Un momento di puro nonsense, dove Solone parla a vuoto e gli altri sono calati in una situazione paradossale che non riescono a interpretare.

Ma torniamo al racconto di Creso.

Creso è molto forte, ma Ciro, re dei persiani, sta diventando più potente di lui. Allora medita un attacco preventivo. Manda oro, argenti, in quantità favolose a Delfi per ingraziarsi l’oracolo di Apollo. Fa immolare tremila capi di bestiame.

Così si pronuncia l’oracolo: «Se marcerai contro i persiani, distruggerai un grande impero».

«Vai», pensa Creso, «è il momento di attaccare».

Così Creso entra in guerra contro Ciro, e soddisfa in pieno l’oracolo, perché distrugge un grande impero, il suo. E finisce prigioniero dei persiani.

Ciro lo mette al rogo. Sapendolo molto pio, vuole vedere se Apollo lo salverà dopo i tributi da favola che gli aveva corrisposto.

«E a Creso, mentre stava sul rogo, venne in mente […] la sentenza di Solone, quasi gli fosse stata detta per ispirazione divina, che nessuno dei viventi è felice. A questo pensiero, dopo lungo silenzio, sospirò e gemette e per tre volte invocò il nome: “Solone”!»

Ciro dice agli interpreti di chiedere a Creso cosa stia dicendo, ma il fuoco comincia a divampare.

E Ciro «avendo riflettuto che anch’egli era uomo e stava per dare alle fiamme, ancor vivo, un altro uomo la cui prosperità era stata non inferiore alla sua, temendo inoltre la punizione divina e pensando che non v’era nulla di sicuro nelle umane vicende, diede ordine che si spegnesse il fuoco che divampava».

Ma il fuoco non si riesce a spegnere.

Allora Creso invoca Apollo, «scongiurandolo che, se qualcuna delle sue offerte gli era riuscita gradita, gli stesse accanto e lo liberasse dalla presente sventura».

«Mentre egli, in lacrime, invocava il dio, d’improvviso, mentre il cielo era sereno e i venti erano calmi, essendosi addensate le nubi, scoppiò un temporale: l’acqua prese a scrosciare violentissima e il rogo fu spento»

«In tal modo avendo Ciro constatato che Creso era caro agli dei e uomo virtuoso, lo fece scendere dalla pira».

E fu così che Creso perse il regno e le sue ricchezze.

Ma non chiedetegli se era più felice prima o dopo. Non saprebbe rispondervi.

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Caravaggio e la cappella Contarelli

A Roma fervono i preparativi per l’anno Santo, il 1600. La cappella Contarelli, all’interno della chiesa di San Luigi dei Francesi, è ancora spoglia. Sono stati eseguiti gli affreschi della volta, affidati al Cavalier d’Arpino, che spera ancora di poter portare a termine il lavoro con la decorazione delle pareti laterali e la pala d’altare. La commissione, tuttavia, dietro interessamento del cardinal del Monte, viene affidata a Caravaggio.

È la prima uscita pubblica del pittore lombardo. Fino ad allora, per quanto avesse ricevuto la protezione di importanti personaggi della scena romana, non aveva avuto ancora la possibilità di mostrare a tutti la sua capacità. Ora è il suo momento.

Esegue in un primo tempo i due laterali. Non più affreschi, come si prevedeva di fare con il Cavalier d’Arpino, ma tele, grandi tele. Il soggetto è la vita di san Matteo, dovuto al fatto che la cappella originariamente apparteneva al francese Mathieu Cointrel (italianizzato in Contarelli) ed è quindi un tributo all’Evangelista che porta il suo nome. Sul lato sinistro La vocazione di san Matteo, e alla destra Il martirio di san Matteo. La parte più importante però, ovvero la pala d’altare, non viene affidata a Caravaggio. A quello scopo era già stata commissionata in precedenza una statua allo scultore fiammingo Cobaert, che avrebbe dovuto raffigurare San Matteo e l’angelo.

Caravaggio è puntuale, e nel 1600 le sue tele vengono appese in San Luigi dei Francesi. L’esposizione dei due quadroni segna uno spartiacque nella storia dell’arte e l’anno preciso, il 1600, l’inizio di un nuovo secolo nella pittura.

Come tutti hanno osservato, la rivoluzione di Caravaggio è la verità. Caravaggio dipinge solo quello che vede. I personaggi dei suoi quadri sono esclusivamente ritratti, presi dal vero, e mai partoriti dall’astratto mondo dell’ideale. Per lui non c’è differenza nel dipingere una natura morta o la figura umana. In una lettera coeva, per l’appunto, si riferisce come «il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure». E questo sovvertendo la secolare tradizione secondo cui il vertice dell’arte era la resa della figura umana, attraverso i quadri religiosi oppure di storia, e tutto il resto seconda scelta.

Ma torniamo alla cappella Contarelli. La scultura di Cobaert, che doveva essere sopra l’altare, tarda ad arrivare. I committenti vanno dall’artista e, come riferisce Baglione, «i Contarelli, quando il videro, pensando che fosse opera divina, o miracolosa, e ritrovandola una seccaggine, no’l vollero nella lor cappella di S. Luigi». Basta, il San Matteo e l’angelo di Cobaert è una cosa orrenda. Neanche morti lo vogliono nella loro cappella. A chi affidare quindi la decorazione dell’altare? Ma a Caravaggio, certamente.

A questo punto siamo nel 1602. L’esordio pubblico di Caravaggio doveva essere andato bene, se a meno di due anni di distanza si rivolgono ancora a lui (e questo dopo i quadri rivoluzionari che aveva presentato). Caravaggio sarà stato lusingato e quindi si sarà sentito anche più libero nella realizzazione del suo San Matteo e l’angelo. E se prima doveva fare da contorno al lavoro di qualcun altro, ora erano le sue tele a fare da laterali alla sua nuova opera. Una soddisfazione non da poco, considerando anche il fatto che era la sua prima commissione.

Caravaggio, secondo l’iconografia classica avrebbe dovuto rappresentare san Matteo nel momento di scrivere il vangelo, ispirato dall’angelo.

E invece cosa fa? Caravaggio dipinge un nonno e un nipote. Il nonno se ne sta seduto su una savonarola, impacciato, che non sa bene come tenere il libro con le sue goffe manone. E l’angelo? A voi sembra un angelo? È solo un bambino a cui hanno attaccato delle ali.

Quello che mi piace di questo dipinto è l’intimità che si crea fra i due. Quando i bambini vanno a scuola e imparano a scrivere le prime lettere, è come se sapessero tutto loro. L’abbiamo vissuto tutti. Appena facciamo le prime conquiste, be’, allora i grandi non sanno più niente, sappiamo tutto noi. «Ma nonno, ma come fai quella A?, ma non si fa così!, la devi fare più grande. E la O? Ma no! Per la O maiuscola ci vuole il ricciolino!». Ed è questo che propone Caravaggio.

La tela venne rifiutata. Secondo Bellori, teorico dell’idealismo (e quindi grande nemico di Caravaggio) «fu tolta via dai preti, col dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe incavallate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo». E in effetti la figura di san Matteo è veramente un contadino con le gambe nude e i piedi sporchi. Ma secondo me il motivo vero del rifiuto non era il decoro, quanto l’intimità affettiva tra san Matteo e l’angelo. E, ovviamente, san Matteo e l’angelo, non potevano essere nonno e nipote.

Caravaggio deve averla presa malissimo. Sempre Bellori riferisce come «si disperava Caravaggio per questo affronto». Tutte le sue aspettative venivano frustrate. Ma io credo che il rifiuto gli facesse molto male anche per l’attaccamento che aveva per il quadro, al di là delle sue ambizioni.

Il dipinto fu subito acquistato da Vincenzo Giustiniani, grande estimatore di Caravaggio. Rimase nella sua collezione fino al 1815, quando i suoi eredi vendettero tutta la raccolta al Kaiser Friederich Museum di Berlino. Durante la seconda guerra mondiale, insieme a moltissime opere d’arte, venne portato in un luogo ritenuto sicuro, ovvero la Flakturm Friedrichshain. Le Flaktürme erano solidissime costruzioni di cemento armato edificate come rifugi antiaerei. Nel 1945 a guerra praticamente terminata, mentre Berlino era occupata dalla truppe sovietiche, all’interno della Flakturm Friedrichshain scoppiò un incendio che distrusse le innumerevoli opere che lì erano state portate per essere protette. E così anche il nostro quadro andò perduto per sempre.

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La cento chilometri del Passatore

«Per coloro che non conoscono Firenze o che la conoscono poco, alla sfuggita e di passaggio, dirò come ella sia una città molto graziosa e bella circondata strettamente da colline armoniosissime […]; a quello strettamente aggiungerò un dolcemente che mi pare tanto a proposito, giacché le colline vi scendono digradando, dalle più alte che si chiamano monti addirittura e si avvicinano ai mille metri di altezza, fino a quelle lievi e bizzarre di cento metri o cinquanta […]. Ogni qualvolta io abbia avuto occasione di accompagnare degli stranieri sopra queste cime, o Italiani d’altra regione, per esprimere tanta diversità di visuale, di sensazioni o apprezzamenti, non riuscirono a trovare che una parola: “bella! bella! bella!” tante volte ripetuta e in tanti toni, talora coi denti un pochino stretti, ma si capisce che chi diceva “bella” ne aveva un’altra nel cuore e, come tutti gli amanti, non potendo ammettere bellezza che superi quella del proprio amore un sospetto soltanto li faceva turbare per un istante; parola che forma nella memoria, e nel giusto orgoglio, un coro gradevolissimo, o meglio, una sinfonia discorde e armoniosissima come le colline di Firenze».

Eh sì, mi piacerebbe fossi stato io a scrivere queste parole, ma invece è la descrizione che Aldo Palazzeschi pone all’inizio delle Sorelle Materassi. Certo è però che descrive esattamente quello che si prova quando appena usciti dal centro di Firenze ci si inerpica sulla salita verso Fiesole. Perché tutti dicono che Firenze è bellissima; ma sbagliano, perché la Firenze più bella è quella che si vede dalle sue colline. E quando sei appena partito con la prospettiva di fare cento chilometri non sapendo quello che succederà, questo spettacolo lo godi tutto, perché sai che di questa energia avrai bisogno.

Parte così la gara. Duemila persone in canotta e pantaloncini dietro a piazza della Signoria. Estraniati in mezzo agli ombrellini dei giapponesi, scompaiono in mezzo al tritatutto di un qualsiasi pomeriggio fiorentino. Ed è proprio così la partenza del mitico Passatore, gara di lunga tradizione e sogno proibito di ogni podista. Discreta e sottotono, come fossero i soliti quattro gatti che si ritrovano per fare un lungo. Tant’è che viene voglia di chiederti: Tutto qui?

Il bello e il brutto di questa gara sono i saliscendi. D’altronde, se pensi che si parte da Firenze e si arriva a Faenza, la carta geografica ti dice che in mezzo ci sono gli Appennini. Di solito l’altimetria ti frega perché se la guardi ti sembra tutto piatto e poi quando inizi a correre ti rendi conto di andare sulle montagne russe. Così mi era capitato alla maratona di Reggio Emilia. L’altimetria segna: leggera salita all’inizio e seconda parte tutta in discesa. Col cavolo! È tutto un saliscendi che ti viene il mal di mare, e la discesa non si è mai vista, neanche col binocolo.

Figuriamoci adesso, che solo guardando il grafico ti si presenta una curva che si impenna dal trentunesimo al quarantottesimo. Da 195 a 913 metri nel giro di diciassette chilometri. E che, mi avete preso per una capretta? D’altronde, mi dico, potevo anche evitare di iscrivermi e fare la Avon running. Ma è sempre così: il momento di saggezza arriva dopo che hai fatto la cavolata.

Un po’ si va su, un po’ si va giù, e all’inizio non è neanche male. Perché quando scendi ti sembra che sia tutto facile. Ce ne ho altri settantadue da fare? Eh, hai voglia, così vado anche oltre.

Convinto di proseguire fino a Ravenna, a magari fino a Bari, mi schianto contro il muro del trentasettesimo. Un paio di tornanti niente male infrangono i miei sogni di gloria. Mi ridimensiono subito e mi faccio una passeggiatina fino al mitico passo della Colla. Ripartiremo dopo… forse.

Da una parte ti viene il nervoso a pensare quanto tempo stai perdendo, ma camminare ha anche il suo lato positivo. Come diceva Bruno Lauzi nella sua famosa Tartaruga: «andando piano lei trovò la felicità: un bosco di carote, un mare di gelato, che lei correndo troppo non aveva mai guardato». Caspita, come aveva ragione! Mi guardo intorno e vedo le macchine dei gruppi di supporto posizionate ai due lati della strada piene di ogni ben di dio. Elaboro una strategia diabolica. Passo davanti a un’auto con bagagliaio aperto. Ananas tagliato a pezzetti in bella vista. Non riesco a resistere, faccio gli occhi da cerbiatta e chiedo un pezzo. Mi avrebbero dato anche il portellone del bagagliaio! Cavoli, se funzionano gli occhi da cerbiatta!

Arrivo al quarantottesimo, si oltrepassa la Colla. Da quel punto in poi è tutta discesa. Sono felice, non vedo l’ora di riprendere a correre. Poi penso che ne ho altri cinquantadue. Sono un po’ meno felice, ma riparto lo stesso.

Calano le tenebre. La stellata è magnifica, peccato però che per la strada non si vede più un tubo. Robi (che non finirò mai di ringraziare abbastanza, infatti ne approfitto anche adesso: grazie Robi!) mi procura una lampada frontale cinese, avanzo della Monza-Resegone del ’92. Ci metto ventidue minuti per capire come funziona, però poi la domino perfettamente perché riesco ad avere le ginocchia illuminatissime ed entro persino in sincronia con le sue oscillazioni per evitare di trovarmela per la sesta volta tra l’orecchio e la guancia. Per strada non mi vede nessuno e io non vedo una mazza. Però, caspita, che belle ginocchia che ho, non l’avevo mai notato. Dovrei valorizzarle di più.

La colonna sonora del momento è Emozioni di Lucio Battisti: «E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire».

Questa volta però l’altimetria non mente, perché a parte una piccola salitina per entrare a Brisighella, è veramente tutta discesa. Non oso neanche immaginare cosa sarebbe stato di me se avessi trovato una salita a tradimento al novantesimo. Avrei chiamato il 118 e mi sarei fatto fare anche due flebo, come segno di protesta non violenta.

Lo spirito umano è molto difficile da comprendere. A volte trascuriamo le cose fondamentali, ma siamo pronti ad attaccarci alle piccolezze. Il Passatore me ne ha dato una prova evidente. I chilometri della Faentina, che si possono leggere sul ciglio della strada, sono uguali a quelli del percorso, tranne che per un chilometro e seicento metri. Ebbene, non sono i cento chilometri che ti danno fastidio. Quelli sono come un macigno del destino che accetti con rassegnazione. Ma quel chilometro e mezzo, cavoli, quel chilometro e mezzo! Sei al novantunesimo e ti cade l’occhio sul bordo della strada che ti dice ottantanove. È devastante. Per questo motivo avrei un suggerimento per gli organizzatori. Per favore, per la prossima edizione cancellate con l’uniposca tutti i chilometraggi della Faentina, almeno dal sessantesimo in poi. Tanto quelli che viaggiano in macchina ce l’hanno il contachilometri.

E poi, voi lo sapete perché si chiama il Passatore? Sì, sì. Lo sanno tutti che è il famoso Passator cortese che compare anche in una poesia di Pascoli: «Romagna solatia, dolce paese,/ cui regnarono Guidi e Malatesta;/ cui tenne pure il Passator cortese,/ re della strada, re della foresta.». Il famoso Robin Hood della Romagna, il brigante che razziava quelle terre alla metà dell’Ottocento (a cui anche Raul Casadei ha dedicato una canzone). Ma non tutti sanno che si chiamava Stefano Pelloni.

Pelloni? Ma che, Pelloni come il nome vero della Carrà? Ma la Carrà, non è anche lei di quelle parti? Ma, sta a vedere che…

Sì, caspita! Ho scoperto che il Passatore è veramente un antenato della Carrà.

Sì, però, allora, che vergogna! Invece di fare la prova Danacol dovevi venire tu, Raffa, a metterci la medaglia al collo all’arrivo.

Già arrivare alla piazza di Faenza e sapere di avercela fatta ti mette in pace con il mondo. Però, se ci fossi stata tu a onorare i tuoi antenati, ci avresti fatto sognare.

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Le mie melanzane

Siete tutti avvertiti. Posso dirvelo adesso che sono ancora lucido ma domani, quando in un caldo giorno d’estate mi accingerò a raccogliere i frutti viola che crescono sul mio balcone, ebbene, allora in quel momento non posso prevedere quello che succederà alla mia capacità di giudizio.

Preparatevi. Perché sono sicuro che il mio ego cederà davanti ai doni che Cerere mi farà trovare. Mi godrò lo spettacolo delle sei piantine e delle melanzane che produrranno. Le vedrò crescere poco a poco, ma poi il momento arriverà. E allora…

E allora, appuntantevelo sull’agenda. Perché so che succederà, anche se tenterò di resistere con tutte le mie forze, disperatamente come aveva fatto sant’Antonio nel deserto, facendo appello a ogni recondita energia.

Ricordatevelo voi. Perché so che cederò, e lo farò con grande gioia. Ma voi no, dovrete essere voi i punti fermi delle mie avventure agricole.

E se proprio in quel caldo giorno d’estate, quando il sole alto all’orizzonte e il frinire delle cicale mi diranno di procedere con il mio raccolto, dovessi casomai chiamarvi e invitarvi a casa mia per una parmigiana di melanzane, ecco, sarà proprio in quel momento che sarete chiamati in campo per salvare voi stessi e la mia capacità di giudizio.

Negatevi. Ogni scusa sarà buona. L’aperitivo coi colleghi, la cena dalle zie, il trattamento anticalcare del box doccia, il cambio dei filtri del condizionatore. Qualsiasi motivazione sarà in grado di salvare voi e me dall’evento infausto.

Perché io lo so benissimo come saranno le melanzane raccolte su di un balcone a Milano. Voi vi chiederete: «Come saranno le melanzane coltivate su di un balcone a Milano?». Ma come volete che siano? Orrende! senza dubbio. Piccole, striminzite, rattrappite, piene di semi, amare, insapori, mollicce, gialline, asfittiche.

E così starà solo al vostro buon cuore negarmi la triste esperienza di vedere in presa diretta il fallimento della mia esperienza di coltivatore diretto.

D’altronde, solo un vero amico sa capire quando è il momento di dire no.

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Tòmiri, la regina dei massageti

Chiunque abbia letto la Commedia di Dante non può non essere rimasto colpito da questi versi del dodicesimo canto del Purgatorio, dove vengono elencati gli esempi di superbia punita:

«Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio

Che fé Tamiri, quando disse a Ciro:

“Sangue sitisti, e io di sangue t’empio”».

La forza e la violenza della vendetta truculenta della regina sulla superbia di Ciro il Grande vengono fuori con una straordinaria efficacia.

Ma chi era Tòmiri (o Tàmiri, come la chiama Dante)?

Tomiri era la regina dei massageti, una popolazione che si era stanziata a sud del Lago Aral. Purtroppo, però, la regina e i suoi sudditi ebbero il gran difetto di trovarsi sulla strada di Ciro il Grande, che nel frattempo si stava costruendo un impero. Ciro aveva già conquistato la Media, la Lidia e tutta la Ionia. Aveva esteso i confini del suo regno sino al fiume Iassarte, ed era riuscito ad abbattere anche l’impero neobabilonese.

A quel punto gli venne la voglia di passare lo Iassarte. D’altronde, se fino a quel momento aveva avuto successo con i più forti avversari, cosa aveva da temere da questo branco di zotici incivili dei massageti?

Ebbene, racconta Erodoto che nel 529 avanti Cristo, Ciro mostrò l’intenzione di attaccare i massageti (secondo lui perché non era riuscito a possedere Tomiri). Alle sue intenzioni di guerra, la loro regina risponde con queste parole: «O re dei Medi, cessa il lavoro cui ti stai dedicando con tanto zelo, poiché tu non puoi sapere se questa impresa si compirà per tuo vantaggio; desisti invece, regna sui tuoi sudditi e sopporta di vederci comandare sui nostri. Ma certo tu non vorrai seguire questi consigli e tutto vorrai piuttosto che startene tranquillo. Suvvia dunque, se tanto desideri misurarti con i massageti, abbandona il faticoso lavoro che stai facendo di gettare ponti sul fiume e, quando i miei soldati si siano ritirati dal fiume di tre giorni di marcia, entra nel nostro paese. Se poi preferisci accogliere noi nel tuo, fa’ lo stesso tu».

Ciro però non ascoltò queste sagge parole e attraversò il fiume Iassarte avendo in mente un tranello diabolico. I massageti erano un popolo povero e non conoscevano gli agi della vita. Così Ciro lascia sulla riva del fiume un manipolo di soldati e organizza un banchetto ricco di vivande ma soprattutto di vino, bevanda sconosciuta ai massageti. I quali arrivano e facilmente sbaragliano i pochi avversari, trovando davanti a loro cibo e vino in quantità. Mangiano, bevono, e si addormentano ubriachi. A quel punto piombano i persiani, che fanno una strage, ammazzando e prendendo prigionieri. Tra questi ultimi anche il figlio di Tomiri, Spargapise. Venuta a conoscenza dell’accaduto, la regina inviò questo messaggio a Ciro: «Rendimi il figlio e vattene da questa terra impunito, pur avendo tu oltraggiato la terza parte dell’esercito dei massageti. Ma se non farai questo, giuro per il Sole, signore dei massageti, che certo, anche se tu sei insaziabile di sangue, io ti sazierò».

Ah sì, figuriamoci, pensa Ciro. Questa reginetta da due lire non solo si nega, ma adesso, nonostante abbia il suo esercito decimato, si permette di rivolgersi al grande Ciro con queste parole arroganti.

Ma la tragedia inizia a farsi largo nella storia di Tomiri, perché suo figlio Spargapise, appena si ridesta dall’ebbrezza, preso dalla vergogna per ciò che aveva fatto, si dà la morte.

La battaglia che segue è di una violenza inaudita. Alla fine dello scontro il campo è ricoperto di cadaveri. I persiani vengono sconfitti e lo stesso Ciro muore.

Tomiri è accecata dal dolore e dall’ira. Con un otre vuoto si aggira sul campo di battaglia e raccoglie il sangue che sgorga dalle ferite aperte. Lei stessa gronda di sangue umano. Fa caldo e la regina si passa le mani sporche sul viso, trasformandolo in una maschera insanguinata. Disperatamente cerca il corpo di Ciro. «Come l’ebbe trovato, introdusse la sua testa nell’otre e oltraggiando il cadavere disse: “Tu hai ucciso me che son viva e che t’ho vinto in battaglia, catturando con l’inganno mio figlio; e io, come ti minacciai, ti sazierò di sangue”».

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