Creso, re di Lidia, riuscì a costruirsi un vasto regno portando a termine la politica del padre. Come riferisce Erodoto «quasi tutti i popoli stanziati al di qua del fiume Alis erano stati assoggettati». Re di un impero in Asia minore, proverbiale per la sua ricchezza, Creso ostentava la sua opulenza a ogni occasione.
Proseguendo nel suo racconto, Erodoto ci narra come si recavano a Sardi, capitale del regno, tutti i sapienti. Tra questi ci fu anche Solone, che vi arrivò dopo aver dato le leggi agli ateniesi, e «quivi giunto, fu ospitalmente accolto dal re nella reggia».
«Due o tre giorni dopo il suo arrivo, per ordine di Creso stesso, i servi condussero Solone per le sale del tesoro e gli mostrarono che tutto era splendido e fastoso».
Creso lascia passare un po’ di tempo, fa in modo che il suo ospite possa osservare e toccare con mano la sua opulenza e soppesare le monete e i metalli prezioso del suo tesoro, e poi gli pone una domanda.
«Ospite di Atene, poiché è giunta fino a noi grande fama di te, della tua saggezza e dei tuoi viaggi, che, cioè, per amore del sapere tu hai con cura visitato gran parte della terra, ora mi è venuto il desiderio di domandarti se tu hai già visto un uomo, che sia il più felice del mondo».
Ovvio che per lui la risposta era scontata.
Ma Solone risponde che l’uomo più felice del mondo era un tale Tello di Atene, che ebbe dei figli belli e buoni, e morì costringendo i nemici in fuga alla battaglia di Eleusi, e per questo gli ateniesi lo seppellirono a spese pubbliche.
Creso è irritatissimo. E per secondo, gli chiede? Niente da fare, non è neanche al secondo posto.
Allora Creso perde il suo aplomb e sbotta: «Ospite di Atene la nostra felicità è da te considerata un nulla, che non ci stimi degni di rivaleggiare con dei semplici cittadini privati?».
Così risponde Solone: «Di tutti questi giorni che formano i 70 anni, e sono 26.250 [considerato da Solone come il limite della vita dell’uomo], non ce n’è uno che trasmetta all’altro una cosa completamente uguale.
«Così, dunque, o Creso, l’uomo è tutto in balia degli eventi.
«A me tu, ora, appari possessore di grandi ricchezze e re di molti popoli; ma quello che tu mi chiedi io non te lo posso ancora dire, prima di aver saputo che hai chiuso la tua vita nella prosperità. Poiché non è vero che colui che è molto ricco sia più felice di chi ha da vivere alla giornata, se non l’accompagna la fortuna di terminare la vita in una completa felicità».
«Di ogni cosa bisogna considerare la conclusione, come andrà a finire; poiché a molti già il dio lasciò intravedere la felicità e poi li precipitò nella più profonda rovina».
Il commento finale di Erodoto è questo: «Con queste parole non faceva, io credo, molto piacere a Creso il quale lo congedò, non avendolo ritenuto degno di alcuna considerazione; piuttosto stolto, anzi, gli era sembrato egli che, sdegnando i beni presenti, consigliava di badare alla fine di ogni cosa».
Ah, questi sapientoni di Atene, che vengono qui a casa mia a darmi lezioni!
Questa è la scena che vediamo nel quadro di Gerrit Van Honthorst, il pittore che gli italiani, quando era a Roma, chiamavano Gherardo delle Notti a causa dei suoi quadri a lume di candela.
Creso, splendidamente abbigliato, è sul trono; il suo tesoro sparso dappertutto: monete, argenti, oro. Schiavi si inginocchiano ad adorare le sue ricchezze. Creso ha appena fatto la sua domanda, e già si indica da solo come a dire: «Sono io il più felice, vero?». E Solone, vestito come un mendicante: «No, no, non sei tu, è quell’altro, Tello di Atene!». I cortigiani a fianco del re, con i loro splendidi cappelli piumati (la filologia non era proprio all’ordine del giorno, ai tempi), ridacchiano nel vedere questo soggetto improbabile, questo pezzente con una coperta addosso e i legacci ai pantaloni, dire tali stupidaggini al re di Lidia. Un momento di puro nonsense, dove Solone parla a vuoto e gli altri sono calati in una situazione paradossale che non riescono a interpretare.
Ma torniamo al racconto di Creso.
Creso è molto forte, ma Ciro, re dei persiani, sta diventando più potente di lui. Allora medita un attacco preventivo. Manda oro, argenti, in quantità favolose a Delfi per ingraziarsi l’oracolo di Apollo. Fa immolare tremila capi di bestiame.
Così si pronuncia l’oracolo: «Se marcerai contro i persiani, distruggerai un grande impero».
«Vai», pensa Creso, «è il momento di attaccare».
Così Creso entra in guerra contro Ciro, e soddisfa in pieno l’oracolo, perché distrugge un grande impero, il suo. E finisce prigioniero dei persiani.
Ciro lo mette al rogo. Sapendolo molto pio, vuole vedere se Apollo lo salverà dopo i tributi da favola che gli aveva corrisposto.
«E a Creso, mentre stava sul rogo, venne in mente […] la sentenza di Solone, quasi gli fosse stata detta per ispirazione divina, che nessuno dei viventi è felice. A questo pensiero, dopo lungo silenzio, sospirò e gemette e per tre volte invocò il nome: “Solone”!»
Ciro dice agli interpreti di chiedere a Creso cosa stia dicendo, ma il fuoco comincia a divampare.
E Ciro «avendo riflettuto che anch’egli era uomo e stava per dare alle fiamme, ancor vivo, un altro uomo la cui prosperità era stata non inferiore alla sua, temendo inoltre la punizione divina e pensando che non v’era nulla di sicuro nelle umane vicende, diede ordine che si spegnesse il fuoco che divampava».
Ma il fuoco non si riesce a spegnere.
Allora Creso invoca Apollo, «scongiurandolo che, se qualcuna delle sue offerte gli era riuscita gradita, gli stesse accanto e lo liberasse dalla presente sventura».
«Mentre egli, in lacrime, invocava il dio, d’improvviso, mentre il cielo era sereno e i venti erano calmi, essendosi addensate le nubi, scoppiò un temporale: l’acqua prese a scrosciare violentissima e il rogo fu spento»
«In tal modo avendo Ciro constatato che Creso era caro agli dei e uomo virtuoso, lo fece scendere dalla pira».
E fu così che Creso perse il regno e le sue ricchezze.
Ma non chiedetegli se era più felice prima o dopo. Non saprebbe rispondervi.